Pochi chitarristi al mondo hanno la fortuna (bravura?) di avere non uno, ma ben due progetti di grandissimo successo, e James (Jim) Root è sicuramente uno di questi: da ormai dieci anni gli Slipknot sono una delle realtà più seguite e apprezzate nel panorama metal mondiale (o in qualunque contesto musicale attinente al rock li si voglia inserire...), e a questa straordinaria band si sono affiancati stabilmente, da ormai 6 anni, gli Stone Sour, band in cui Root divide il palco col frontman degli Slipknot Corey Taylor.
La recente pubblicazione del nuovo disco All Hope Is Gone (numero 1 per vendite nelle classifiche italiane, mentre scriviamo) e il conseguente tour ci regalano l’occasione di conoscere più da vicino (e senza la tradizionale maschera!) uno dei chitarristi più interessanti dell’attuale scena heavy.
Nonostante i tentativi di azione di disturbo perpetrati da un simpaticissimo Corey Taylor (e ragazzi, dobbiamo dirlo: quell’uomo ha un vocione incredibile: faceva un’intervista “in parallelo” nel camerino adiacente, e copriva la voce di Jim... Anni e anni di scream!), ci sediamo con Jim e ci prepariamo a quella che si rivelerà una piacevolissima chiacchierata con una persona mai banale nelle opinioni e sorprendentemente ipercritica con se stessa (ma non è forse il segnale che abbiamo davanti un vero artista?):fuoco alle polveri!
Come sta andando il vostro tour? Benissimo, sono solo un po’ stanco. Vorrei che le altre 23 ore della giornata fossero divertenti come l’ora che passiamo sul palco... Siamo partiti dal Giappone, dove siamo stati un paio di settimane; poi abbiamo toccato Nuova Zelanda e Australia, volando quasi ogni giorno: a volte perdo la concezione del tempo, diventa difficile dire che ore sono o che giorno è... L’unica cosa che so - per fortuna - è DOVE sono; ma in fondo è nella natura di questo bellissimo lavoro! L’unico inconveniente è la lunghezza del tour: di solito 6-8 settimane non mi creano problemi, ma quando tocchi continenti diversi è stancante... Se potessimo passare 8 settimane di fila solo in Europa sarebbe bellissimo!
Penso che All Hope Is Gone rappresenti un ritorno alle radici più violente e aggressive del vostro sound, ma che al contempo siate riusciti a mettere a frutto l’esperienza maturata con Vol. 3: (The Subliminal Verses), sotto la guida sapiente di Rick Rubin... A volte, nella carriera di un artista, si deve fare qualche passo indietro per... fare dei grandi passi avanti. È ciò che abbiamo cercato di fare quando abbiamo realizzato questo album. Non avevamo molto materiale pronto quando ci siamo ritrovati in studio, perché Corey e io siamo stati a lungo in tour con gli Stone Sour, Joey [Jordison, il batterista] è stato a lungo in tour con i KoRn, e anche Paul [Gray, il bassista] aveva diversi impegni. Di solito, quando Corey e io siamo in tour, Joey e Paul cominciano a lavorare con largo anticipo al materiale per il nuovo disco, realizzando demo di 12-14 pezzi, e poi partiamo da lì... Questa volta siamo partiti da 5 o 6 canzoni e abbiamo dovuto lavorare in maniera molto più individuale del solito, cosa che ha reso un po’ più difficile l’assemblaggio del progetto. Penso comunque che questo disco sia un’ottima istantanea di un momento particolare della nostra carriera e delle nostre vite.
Ma, a posteriori, come giudicheresti quest’esperienza? Oh no, non puoi chiedermelo: è una domanda troppo difficile! Non sono mai al 100% felice di quello che abbiamo fatto, ma credo sia nella natura delle cose: l’album che mi ha lasciato maggiormente soddisfatto è Vol. 3: (The Subliminal Verses), che posso riascoltare oggi e di cui mi sento veramente fiero... Abbiamo lavorato come una band, portando tutti idee, contributi, sperimentando moltissimo, toccando territori mai toccati prima... Per essere onesto, All Hope Is Gone non l’ho ancora riascoltato! Ma è troppo “fresco” perché io dia un giudizio sereno ed equilibrato. Quando prima accennavo al fatto di dover fare un passo indietro a volte per fare un grande passo avanti, non mi riferivo alle composizioni: semplicemente venivamo dall’esperienza con Rick Rubin [produttore] e abbiamo poi lavorato con Dave Fortman, che non definirei proprio un produttore ma un sound engineer; questo, dal punto di vista della produzione, per me è un passo indietro. Tempi e modi di realizzazione non mi soddisfano come quelli di Subliminal... Anche le composizioni sono forse meno intime e introspettive. Ma, come ho detto, è troppo difficile per me giudicare obiettivamente adesso questo nuovo lavoro! A volte l’assimilazione di ciò che si è realizzato può essere questione di attimi, altre volte... di anni!
Proviamo a entrare nei dettagli più squisitamente chitarristici del disco: in Psychosocial, nel solo, possiamo sentire due approcci estremamente diversi; la parte di Mick Thomson sembra molto studiata, con belle citazioni in pennata alternata di scuola Paul Gilbert, mentre tu sembri preferire il legato e un approccio più libero... Quando abbiamo deciso di mettere degli assoli in questo disco, abbiamo pensato a dividere sempre in due le parti, una per lui e una per me. In quel brano non volevo realizzare un solo che suonasse troppo “di maniera”; aggiungi il fatto che non scrivo mai i miei assoli: di solito ascolto la parte e provo più soluzioni, ma sempre con un approccio istintivo, legato all’improvvisazione. La cosa importante è partire da una buona idea melodica di base: per me la “corsa”, lo shred, deve essere solo qualcosa che ti porta da A a B, da una parte melodica all’altra, non il centro del discorso musicale. E questo è ciò che mi piace fare anche dal vivo: del nuovo disco suoniamo due brani, Psychosocial e Dead Memories, e in entrambi i casi mantengo la parte melodica originale quasi identica al disco, mentre le frasi veloci nascono sul momento.
Suoni tu il solo finale di Dead Memories? Sì! Sono un grande fan dell’improvvisazione, come avrai capito, e quel solo è particolarmente melodico... In fondo, Mick e io abbiamo forse approcci differenti, ma veniamo comunque dalla stessa scuola: ci siamo fatti le ossa sulla stessa musica, chitarristi come Paul Gilbert e band come Racer X, Alcatrazz, Cacophony. O Marty Friedman... E adoro i primi dischi di Satriani... Sono decisamente dentro a quel genere, ma come chitarrista preferisco privilegiare il carattere agli aspetti puramente tecnici: per me, puoi suonare un assolo “tecnicissimo”, ma se non c’è la giusta attitude [atteggiamento, ndr] musicale non resta nulla. È il motivo per cui mi piacciono chitarristi come Graham Coxon dei Blur, Pete Townshend degli Who, Joe Strummer...
Be’, forse dovresti pensare a realizzare un disco a tuo nome: sicuramente sarebbe incentrato sulla melodia e credo che uscirebbero cose interessanti... Non è una cattiva idea: scrivo moltissima musica per gli Slipknot e gli Stone Sour, ma ho anche un sacco di musica che non confluisce nelle due band, quindi il materiale ci sarebbe. Forse sono solo un po’ insicuro... Poi, continuando il discorso sull’attitude, non so se il disco sarebbe solo strumentale. Faccio molta fatica a trovare interessante la musica priva del canto, quindi dovrei chiamare un cantante. Ma poi penso che ho Corey, il meglio sulla piazza! E torniamo al punto di partenza... Con Corey suono già in due band! Ma non è detto che prima o poi non ci lavori: potrebbe essere qualcosa di molto vicino a una colonna sonora, qualcosa che forse non troverebbe collocazione nel metal, e nemmeno nel rock. Mi piace la chitarra quando suona in maniera non convenzionale, quando si sperimenta sulle timbriche: ho scritto un brano prendendo da una batteria elettronica delle percussioni indiane, ho costruito dei groove e li ho splittati in stereo, poi ho aggiunto delle chitarre molto “beatlesiane”, con delay piuttosto ampi, e ho suonato una linea melodica in slide... Suona molto anti-convenzionale ! Ecco, questa potrebbe essere la direzione di un mio eventuale disco solista. Ma bisogna avere anche il tempo! Magari uno di questi giorni, quando riuscirò a prendermi una pausa da tutto questo circo [ride]! Non mi fermo dal 1999!
Parliamo un po’ di strumentazione: la Fender ha recentemente realizzato il tuo strumento signature, una Telecaster disponibile in due versioni, una con tastiera in ebano e l’altra con tastiera in acero... Volevo una chitarra che potessi usare non solo dal vivo, ma anche in studio... In studio, prima della realizzazione di questo strumento, ero solito portarmi fino a 20 chitarre, mentre per registrare All Hope Is Gone ho usate solo le mie due Signature: quella con la tastiera in acero per i pezzi in drop A e quella con la tastiera in ebano per quelli in drop B; non chiedermi perché, mi sono semplicemente trovato alla perfezione così... Del resto, il corpo in mogano risuona in modo incredibile con i pickup EMG, il suono è enorme! Allo stesso tempo, però, ho sempre voluto una chitarra che mi garantisse anche tanta versatilità, per questo al manico ho scelto l’EMG 60 [al ponte c’è l’EMG 81; ndr]: è un pickup dal suono molto caldo e rotondo, mai sopra le righe, e puoi suonarci splendidi assoli distorti come parti pulite jazzy... Però volevo anche che fossero realmente a portata di tutte le tasche: ci sono un sacco di splendide chitarre là fuori, solo che costano cifre astronomiche!
E gli amplificatori? Negli ultimi anni ho usato ogni tipo di amplificatore in commercio: Mesa/Boogie, Bogner, Diezel, Rivera... Ora sto usando gli Orange, con cui mi trovo molto bene: in particolare il Rockerverb 100 W, che suona benissimo; mi è difficile trovare un termine di paragone perché ha una timbrica molto personale, fatta di alti presenti ma non invadenti, medi molto ben centrati, che bucano il mix, e di bassi molto “fermi”, tight, perfetti per il mio stile...
Hanno una sonorità molto più British degli altri ampli che hai citato... Sì, la circuitazione è decisamente British, ma è soprattutto la filosofia di base a piacermi: è un ampli semplice, senza troppe funzioni, push-pull o switch che spesso ti complicano solamente la vita! È facile da far suonare bene! Ci sono bassi, medi, alti, gain e volume, tutto quello che serve, oltre a una gran timbrica di base! E lavora molto bene in combinazione con la sua cassa: mi dà quel suono, il mio suono... Questo è il motivo per cui mi sono fatto costruire degli isobox con dentro le casse Orange che uso dal vivo: voglio che ovunque il mio suono esca perfetto! Nel disco ho usato anche una [testata] Diezel Herbert e una cassa Diezel: il segnale è splittato e viene ripreso da entrambi gli ampli; i cabinet vengono ripresi da un microfono Sennheiser MD 421 e da uno Shure SM57 vicino al cono. Il segnale entra in un pre Neve 1073, e questo è il suono di base dell’intero disco: uso lo stesso suono per la ritmica e per la solista. L’unico ampli differente usato nell’album è un combo Orange Rockerverb 50 W, per alcuni puliti in brani come Dead Memories o per sperimentare suoni inusuali con i pedali.
E la ballad, Snuff? L’acustica è una Martin D42 o forse una D45... Non ricordo. È la mia acustica da 5 o 6 anni, l’adoro! Ho usato naturalmente una delle mie signature elettriche per le parti heavy.
Cos’hai usato per il suono degli interventi melodici di chitarra? Un [pedale] Dunlop JD-4S Rotovibe nel combo, col settaggio clean e l’EMG 60 al manico. Ho usato un sacco di pedali, impossibile ricordarli tutti: wha, overdrive Boss su qualche assolo, un [Electro-Harmonix] Microsynth, ma in generale appartengo alla filosofia del meno è meglio, soprattutto perché si evitano grandi complicazioni nel riprodurre i brani dal vivo.
Hai qualche buon consiglio per i lettori di Axe? È difficile dare un consiglio adatto a tutti, ma potrei dire questo: metteteci sempre tutta la vostra passione! Il motivo per cui oggi sono qui è perché, sin da ragazzino, sono letteralmente ossessionato dalla chitarra e ho avuto la fortuna di avere genitori molto attenti alla musica. Da quando a 14 anni ho deciso di imbracciare la chitarra, il mio strumento non mi ha mai abbandonato, ogni giorno era sempre con me, anche la sera davanti alla TV, la portavo persino a cena... Ed ero sempre preso a cercare di capire come trascrivere certe cose: brani, accordi, scale. Ho avuto la fortuna di avere un buon orecchio, ma il resto l’ha fatto la determinazione!
Quindi sei autodidatta? Quasi completamente: ho preso qualche lezione all’inizio, per un mese circa; ho imparato ad accordare, gli accordi in prima posizione e poco altro... Poi chi mi dava lezioni ha cominciato a insegnarmi canzoni, e mi sono reso conto che potevo andare avanti da solo. Quindi sono passati un paio d’anni in cui sono progredito moltissimo soprattutto come chitarrista ritmico: ascoltavo e cercavo di trasportare sulla tastiera tutto quello che mi colpiva.
In effetti, a volte il limite di molti ragazzi che escono oggi dalle scuole di musica... ... È che tendono a suonare tutti allo stesso modo! Certo, conoscere la teoria musicale è un grande vantaggio, avrei sempre voluto migliorare le mie conoscenze; ma non è la cosa principale, per quello che mi riguarda, perché ho preferito lavorare sullo sviluppo di uno stile personale e sulla capacità di portare sulla chitarra le idee che mi vengono. Molti dei miei chitarristi preferiti sono musicisti che puoi riconoscere da una singola nota, per quanto sono personali: pensa a David Gilmour, a Stevie Ray Vaughan, a Michael Schenker....
Ok Jim, abbiamo finito, sei stato gentilissimo... Come?! Di già? No, aspetta, vieni che ti porto sul palco e ti faccio vedere la strumentazione...
Marco Cardona