Dream Theater
Six Degrees of Inner Turbulence
Elektra Records 2002Tratto da Axe 64, Marzo 2002
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Six Degrees Of Inner Turbulence è un doppio album fortemente influenzato dalla tragedia delle Twin Towers. Inserendo il primo CD si ha l'impressione che sia tutto normale (a parte il fatto che Petrucci si è tagliato i capelli!): un arpeggio di chitarra classica ci introduce in The Glass Prison, ma è quando entra l'elettrica che si avvertono i primi cambiamenti e capiamo perché Petrucci sia passato alla Music Man. Gustoso l'inserimento di scratch a metà brano, bello il riff di chitarra stile Limp Bizkit.
Blind Faith ha un intro molto easy alla maniera di Lifting Shadows, con un delay sulla chitarra sfruttato per creare dei poliritmi, per poi arrivare al ritornello in 14/8 e 13/8 alternati. Bella la pentatonica per il lancio del solo, anche se suona familiare. Come già era successo per Falling Into Infinity, in cui si avverte una certa intenzione pop, i Dream Theater questa volta cavalcano l'onda dell'elettronica usata però a servizio del loro sound senza intaccarne le caratteristiche.
Dal terzo brano, Misunderstood, Jordan Rudess inizia a dettar legge e tastiere e synth vengono messi in primo piano: l'intro di The Great Debate ne è la prova. Il brano prosegue con una ritmica in sei quarti che cambia, divenendo in sette all'ingresso della voce; per chi non l'avesse capito, Mike Portnoy ancora una volta dà lezioni di ritmica e di tecnica, scomponendo qualsiasi tempo gli capiti tra le bacchette. Degno di nota (e forse anche di qualcosa in più!) il solo di chitarra, un misto di tecnica e gusto al quale segue una parte all'unisono tra chitarra e tastiera che ricorda molto i tempi di Images And Words.
Il primo CD chiude con Disappear, una ballad in cinque quarti che lascia spazio a un uso massiccio, ma intelligente, dei synth. Colpisce la dolcezza con la quale il 5/4 è eseguito, grazie alla semplicità della chitarra suonata con accordi presi in prima posizione. Quasi impercettibile il cambio in 6/4, alleggerito da una ritmica a terzine eseguita dagli archi (naturalmente campionati).
Il secondo CD contiene Six Degrees Of Inner Turbulence, che dà anche il titolo all'album. Un intero brano suddiviso in otto parti, che racconta la tragedia dell'undici settembre, ma soprattutto trasmette la voglia di ricominciare a vivere. Ascoltando le varie parti, ti trovi tutta l'America in faccia a partire dall'Ouverture, una marcia trionfale di archi e fiati in perfetto stile americano che mostra la fierezza di questo paese, fino a Goodnight Kiss e Solitary Shell, due ballad una in 4/4 e l'altra in 7/4. Colpisce il riff iniziale di About To Crash (Reprise), che ricorda molto Vai e Satriani. Dopo i fasti del G3 sarebbe stato impossibile per John rimanere stilisticamente illeso da quei due geni.
Ci sono differenze sostanziali tra i due CD: il primo è più elaborato a livello ritmico, con tempi dispari e un uso intelligente di campionatori. Il secondo scorre senza molti tecnicismi (si fa per dire) e rimane gradevole all'ascolto. La naturalezza che i Dream Theater hanno raggiunto nel suonare tempi dispari è disarmante, l'intero album contiene poche battute in 4/4. Anche il 6/4, composto ma comunque lineare, viene scomposto e "mascherato" spostando gli accenti ritmici. Bene: se fino ad ora avevamo dei sospetti che i Dream Theater fossero dei marziani, con Six Degrees Of Inner Turbulence ne abbiamo le prove; alla faccia delle voci che annunciano la fine della band!
Lorenzo Carancini