A un anno di distanza dall'ultimo CD, ecco il nuovo lavoro della band che ha fatto impazzire il mondo dietro alle scomposizioni ritmiche ai limiti dell'impossibile! Anche questa volta John Petrucci e compagni impongono il loro stile inconfondibile a colpi di sedicesimi e sonorità più che mai aggressive.
Il disco apre con As I Am: intro di tastiera per arrivare a un prorompente riff di chitarra su una batteria dal tempo largo e molto appoggiato, finché non raddoppia e iniziano i primi spostamenti d'accento. Bellissima la scomposizione nella seconda strofa dopo il ritornello, dove la batteria "gira" intorno alla ritmica di chitarra ribaltando il battere: roba da andar fuori di testa! Petrucci dimostra di essere in grande forma con il primo solo, suscitando un brutto presentimento! This Dying Soul inizia alla grande, doppia cassa a palla doppiata da basso e batteria con sopra un solo di tastiera di Rudess dal suono veramente particolare; belli gli interventi di voce effettata (molto Korn per la verità, anche nell'intenzione) e chiusura ai limiti dell'umano con una frase infinita di chitarra e tastiera all'unisono. Per ora il presentimento è confermato!
Un intro di chitarra acustica e piano ci porta in Endless Sacrifice, che, per rimanere nella norma, chiude il giro della strofa una volta in 6/4 e una volta in 7/4. A metà canzone, il delirio: succede di tutto e parlare di scomposizioni sarebbe alquanto riduttivo: i soli alternati tra Petrucci e Rudess sono una vera goduria per gli amanti del prog. Honor Thy Father ricorda molto l'intro di The Mirror, con un ritornello molto bello che dà respiro a tutta la canzone, aprendosi ritmicamente con un riff lineare anche se dispari. Vacant calma un po' le acque, piano e voce con interventi di violoncello, atmosfere a cui i D.T. sono molto affezionati; ma è solo una quiete momentanea (quasi tre minuti) che lascia spazio a Stream Of Consciousness, lungo strumentale (11 minuti), che lascia un po' il tempo che trova, nel senso che è pieno di interventi molto tecnici, ma non rimane molto impresso. Ricordate il presentimento di sopra? Si sta pian piano trasformando in certezza.
In The Name Of God è la traccia che chiude l'album: intro di chitarra clean (che bello il suono del piezoelettrico!) per dare spazio a una ritmica di batteria molto rock, suonata con un gusto incredibile. A un certo punto è come se si aprisse un altro mondo, tutto si calma di colpo e la ritmica diventa molto "rarefatta", per arrivare a una serie di stacchi all'unisono tra basso e batteria da una parte e tastiera e chitarra dall'altra, che sfociano in un una ritmica latin, su cui Petrucci si scatena con degli insoliti, per lui, legati in una frase doppiata dalla tastiera. Disumano!
Il nostro presentimento si è concretizzato al 100%: stavolta il nostro eroe si è fatto prendere troppo la mano dalla sua ascia, regalandoci prodezze tecniche mai sentite nei precedenti lavori (segno di una crescita tecnica continua e inarrestabile), ma purtroppo tralasciando un po' l'aspetto melodico che lo aveva caratterizzato in passato.
C'è da dire che tutto l'album è una vera miniera di riff e per certi versi ricorda molto Images And Words e Awake, con la tastiera dosata in quantità meno massicce rispetto all'ultimo lavoro; purtroppo il CD è composto da sette brani molto lunghi che rischiano di diventare monotoni, il che contribuisce ulteriormente a farci rimpiangere i primi dischi e, con tutto il rispetto per Rudess (tastierista stratosferico), se tornasse Kevin Moore...
Vi lasciamo con una domanda alquanto inquietante: se Petrucci continua a evolvere in questo modo, riusciremo un giorno a distinguere separatamente ogni singola nota? Ai posteri l'ardua sentenza.
Lorenzo Carancini