Con 29 brani, incisi fra il novembre del 1936 e il giugno del 1937, Robert Johnson si guadagna un posto di primo piano nella storia del blues. L’industria discografica è ancora agli albori, ma già esiste un mercato per gli artisti blues, sebbene limitato alle comunità di colore del Sud, contesto in cui le incisioni di Johnson diventano rapidamente molto popolari. La morte appena un anno dopo, poco più che ventenne e in circostanze mai del tutto chiarite, non fa che accrescere il mito, avvolgendo quei brani di un fascino quasi diabolico, enfatizzato da testi del tipo: “Al mattino presto ha bussato alla mia porta, ho detto: Salve Satana! Io e il Diavolo camminiamo fianco a fianco, non sarò soddisfatto finché non avrò battuto la mia donna…”
Sia musicalmente sia liricamente, Johnson raccoglie l’eredità della tradizione del Delta e la proietta verso il futuro, implicando tutti gli stilemi del blues dei suoi tempi, dalla ballata rurale al ragtime, dal gospel a riff che preannunciano il blues elettrico di Chicago. I temi musicali e letterari da cui prende spunto sono rimescolati in uno stile personale, formando efficaci quadri che dipingono una realtà di violenza, amore, povertà, sesso, impotenza, desiderio di fuga, perfino romanticismo, eseguiti curando minuziosamente ogni inflessione vocale, ogni punteggiatura del bottleneck, con un’intensità drammatica tale che occorre aspettare Hendrix per trovare qualcosa di altrettanto potente. Dal ’37 in poi nessun bluesman ha potuto evitare di fare i conti con la sua musica. Peter Green si è spinto fino a rileggere l’opera completa con The Robert Johnson Songbook e Hot Foot Powder e negli anni non sono mancati interpreti capaci di appropriarsi di singoli brani con successo.
Ora giunge Eric Clapton, che già nel titolo sembra voler mettere in luce un rapporto personale con il bluesman. La copertina è disegnata dal pittore inglese Peter Blake, noto per aver disegnato per i Beatles quella di Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Dalla confezione al passato del musicista, che ha sempre citato Johnson come suo principale idolo (nei Bluesbreaker offriva una sentita interpretazione di Ramblin’ On My Mind e poco dopo, con i Cream, proiettava Cross Road Blues nel rock), tutto lascerebbe presagire il capolavoro. Le prime note, con il suono pieno della chitarra, la saturazione spinta quanto basta, sembrano incoraggiare le previsioni ottimistiche, ma la festa dura poco. Continuando l’ascolto ci si rende conto che la lettura dei brani (Eric ne ha selezionati 14) non brilla per varietà d'approccio, rimanendo confinata in arrangiamenti in stile Chicago blues con qualche apertura acustica. Si dirà che ogni artista, legittimamente, tende ad adattare il materiale al proprio stile, ma in questo caso manca la profondità dell’interpretazione, formalmente impeccabile, diremmo “professionale”, ma lontana dall’intensità imprescindibile della musica del bluesman diabolico per antonomasia, soprattutto nel canto: Clapton canta i versi citati all’inizio (da Me And The Devil) con un tono che non preoccuperebbe nessuna donna.
I brani si susseguono senza scosse, prevedibili e gradevoli (per un blues da pugno allo stomaco è il colmo!), con i riff al punto giusto, assoli misurati in cui Clapton non prende rischi, affidandosi a fraseggi collaudati, senza avventure, con qualche sonorità più dura di tanto in tanto, dovuta probabilmente a Doyle Bramhall II, che ravviva occasionalmente l’atmosfera con qualche salutare brivido. La batteria di Jim Keltner mette un po’ di pepe in Come On In My Kitchen; per il resto, Steve Gadd, Nathan East e Andy Fairweather Low assicurano una competente base ritmica, Jerry Portnoy, veterano della band di Muddy Waters, aggiunge colori con la sua armonica e Billy Preston fornisce la salsa con le sue tastiere. Ma il sacro fuoco è assente e il lavoro, ineccepibile sul piano tecnico se si eccettua la finale Hell Hound On My Trail, un po’ caotica, solo a tratti si solleva da una routine di buon livello.
Affrontare le composizioni di Robert Johnson non è impresa da prendere alla leggera e nessuno, finora, è riuscito a farlo senza rimanere in ombra rispetto agli originali; ma in questo caso ci saremmo aspettati un tentativo più coraggioso e condotto con maggiore fantasia, magari mettendo momentaneamente da parte i “fidati professionisti”, poco avvezzi a terreni tanto aspri, e chiamando a collaborare qualche bluesman ruspante. Forse Clapton avrebbe dovuto incidere questo disco molto tempo fa, quando il blues scorreva ancora nelle sue vene, provocando infiammazioni dolorose, ma vitali. Ora i brani si succedono un po’ patinati come foto ritoccate.
Se il titolo suggeriva un duetto fra Clapton e lo spirito di Mr Johnson, la nostra impressione è che il secondo sia stato lasciato un po’ troppo sotto in fase di missaggio, anche se abbastanza presente da rendere Slowhand, nonostante tutto, meno compassato del solito. Poteva essere un’occasione speciale, ma il risultato è un capitolo della discografia di Eric Clapton che, sebbene di buona fattura e con bei suoni, potrà essere considerato essenziale solo dai fan più accaniti, da chi sognava un From The Cradle n° 2 e dagli ascoltatori più distratti.
Mario Milan