Cover di Orchestrion, Pat Metheny

Pat Metheny

Orchestrion

Nonesuch 2010

Tratto da Axe 152, Aprile 2010
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Pat Metheny è da anni salito sull’Olimpo dei chitarristi immortali. Nella sua incredibile carriera ha provato veramente di tutto. Eppure qualcosa gli mancava. Qualcosa che da anni gli frullava nella testa ma che non aveva avuto ancora il tempo di sperimentare.

Forse non tutti sanno che Delmar Bjorn Hansen, nonno materno di Pat, era un valido musicista, e che tra i suoi tesori nascosti aveva un vecchio pianoforte meccanico che aveva sempre incuriosito il giovane nipote. A distanza di decenni, Pat si ricorda di quell’oggetto da museo e cosa gli viene in mente? Di farsi il Pat Metheny “Robot” Group. Ok, il nome è una nostra invenzione, ma la sostanza è proprio quella: “metto in aspettativa il gruppo e mi sposo un automa”, proprio come nel famoso film di Alberto Sordi Io e Caterina, dove la domestica-robot riesce a soddisfare ogni desiderio del protagonista senza chiedere contropartite.

A parte l’ironia, l’operazione Orchestrion ci lascia alquanto disorientati quando ascoltando sappiamo di essere di fronte a un’orchestra di fantasmi. Anche quando un disco viene realizzato in sala di registrazione, con tutti i possibili trucchi disponibili, siamo sempre disposti a pensare che dietro a un’esecuzione ci sia un musicista che si impegna, suda, sbaglia, impreca e, per quanto severi possiamo essere, il nostro giudizio è sempre rivolto alla persona in carne ed ossa. Bene, questa volta chi si è impegnato, ha sudato, non ha sbagliato e né imprecato (perché, maledizione, lui non sbaglia mai!) è solo lui, Pat.

Certo, non è il solo ad aver contribuito al progetto. Assieme a lui troviamo una serie di tecnici para-musicisti specializzati nell’area dell’automazione. In primis i costruttori dell’incredibile apparato meccanico denominato Orchestrion, Eric Singer e la Lemur (League of Electronic Musical Urban Robots) e poi molti altri esperti del settore, ma loro, come muratori specializzati, hanno solo eseguito il progetto. L’architetto è sempre e solo lui: Pat.

Nessun problema, le condizioni per la realizzazione di un opera così articolata Metheny le ha tutte: budget probabilmente alto, ma alla sua portata, gestione live complessa, ma la buona squadra di tecnici dà ottime garanzie, e infine la musica adatta.

Già, la musica. Avete presente quando noi comuni mortali compriamo un effetto o un nuovo congegno elettronico, a lungo sognato e che addirittura temiamo di non meritare, avete presente quando scatta il dubbio amletico: “e ora, riuscirò o non riuscirò a suonare la musica che voglio? Sarà lui, il nuovo acquisto, a farmi cambiare la mia strada?”

Anche qui Pat è inesorabile. È riuscito a scrivere ancora una volta dei brani eccellenti e con la sua solita vena. Eppure, ascoltando il CD, continuiamo a essere perplessi. In tutta onestà, per la fretta di assaggiare subito la novità, abbiamo ascoltato il primo brano, Orchestrion, senza sapere nulla delle diavolerie meccaniche che stavano dietro al progetto. Ebbene, la prima sensazione è stata quella di una qualità esecutiva esagerata, di un sincronismo e di un unisono tra “musicisti” eccezionale (avete presente la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino?), insomma di una innaturale mancanza di umanità dell’insieme. In certi tratti addirittura c’è scappata la frase: “il batterista suona come un sequencer!”. La disillusione nello scoprire che, dietro tutto, c’è invece una rete di motorini elettrici e una catena di elettromagneti, è stata alta. Una volta svelato l’inganno, siamo stati costretti ad ascoltare il resto del progetto con l’inevitabile pregiudizio che, in ogni caso, ciò che arrivava alle nostre orecchie era qualcosa di diverso dal tradizionale sound d’insieme scaturito da una coralità di esseri umani.

Neanche l’atmosfera rarefatta e il clima sognante del seguente Entry Point sono riusciti ad allontanarci dalla meccanicità imperante. Questa si avverte soprattutto nei ruoli ritmici: il basso, con la sua dinamica piatta, sembra suonato da “Band-in-a-Box”, e i piatti sono cimbali ossessivi senza colore. Peccato, perché la chitarra di Pat è l’esatto contrario, espressiva e di una umanità viva ed emozionante, e i brani che Metheny scrive meritano veri musicisti, così come nelle migliori tradizioni del Pat Metheny Group.

La composizione che segue, Expansion, con il suo andamento ritmico molto vario è forse quella che più si adatta alla concezione dell’automazione. L’arrangiamento è così farcito di anticipi, spostamenti e continue variazioni armoniche - e siamo molto lontani dalla World Music di largo consumo - che un organico, anche dei più collaudati, potrebbe in effetti avrebbe qualche difficoltà a seguire la partitura. Ma chi può dirlo, il dubbio resta e forse è proprio quel che Pat cerca di provocare: ci sarebbero riusciti i vecchi amici Paul Wertico, Lyle Mays & co.?

Una certa pace arriva con Soul Search, un brano talmente metheniano da farci venire il dubbio di non averlo già sentito. Ciò che colpisce subito è il suono caldo e molto asciutto della chitarra di Pat: un giusto e condivisibile accostamento alla naturale “acusticità” del progetto. L’elettronica c’è, ma serve quasi unicamente a pilotare gli strumenti che sono quasi tutti acustici. Tra loro: piano, marimba, vibrafono, campane tubolari, percussioni varie e, tra la miriade di strumentini inventati ad hoc, una serie di bottiglie “soffiate” che, illuminandosi automaticamente quando suonano, creano uno spettacolo da luna-park certamente divertente ma un po’ decadente e malinconico (Fellini avrebbe approvato).

Spirit Of The Air chiude questo strano progetto e, pur non riuscendo a fugare i nostri dubbi sul senso dell’operazione (“metto in piedi un macchinario infernale per far suonare gli strumenti da soli e poi… me la suono e me la canto”), ci conferma in ogni caso la grandezza di un musicista che non ha uguali nel suo genere e che, piaccia o non piaccia, resta un riferimento per tutti i chitarristi di oggi.

Gaetano Valli


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