Quali sono a tuo giudizio i brani che più ti rappresentano in There’s Hope e perché?
Ognuno ha un suo perché e una storia dietro. Quello forse più rappresentativo del mio modo di suonare e concepire la musica è Sunset Lights: c’è un po’di tutto ed è stato uno dei più complicati da ultimare; non ne ero mai soddisfatto.
Che effetto fa salire su un palco a fianco del più famoso cantante prog metal del mondo?
Bella domanda. Se dicessi normale, probabilmente nessuno mi prenderebbe sul serio… Ma così è stato, nel senso che ho avuto un bel po’di tempo per abituarmi all’idea di dover affrontare prima un disco e poi un eventuale tour con LaBrie, non potevo certo mostrarmi insicuro. La cosa singolare alla fine è stata che, di tutti gli elementi del gruppo, ero forse il meno teso.
Considerando la valanga di chitarristi validi che avrebbero potuto essere al tuo posto, cosa pensi che abbia colpito maggiormente James LaBrie del tuo stile?
Probabilmente il lato melodico, anzi direi sicuramente il lato melodico. Era alla ricerca di uno che aspettasse il momento del solo per sollevare il brano piuttosto che infilare diecimila note al secondo. Tra l’altro mi è stato espressamente richiesto di essere più melodico che tecnico nei soli, proprio per dare maggior risalto ai brani piuttosto che ai singoli passaggi.
Come hai lavorato sull’aspetto melodico e quali sono state le tappe fondamentali per costruirlo e svilupparlo?
Quando ho incominciato ad appassionarmi seriamente alla chitarra, ho dedicato molto più tempo a cercare di capire come ottenere un suono, una certa espressività che non semplicemente a come andare veloci. La tecnica è venuta di conseguenza, ma all’origine c’è stato uno studio molto più intenso sul tocco e via dicendo. Per ottenere il miglior risultato possibile, ovviamente ho dovuto copiare da qualcuno, cercare di emulare soprattutto il tocco di qualcun altro. In questo mi è stato di grande aiuto l’ascolto di molti chitarristi tra i quali [Joe] Satriani, Kee Marcello, [John] Petrucci e Steve Lukather. Solo successivamente ho scoperto Andy Timmons di cui mi sono letteralmente innamorato e dal quale credo di aver attinto a piene mani!
I musicisti sono incontentabili, c’e’ sempre qualcosa da sviluppare e migliorare… Nel tuo caso?
Nel mio caso scrivere brani migliori! Non sono uno che si scervella troppo riguardo questa o quella tecnica, ecc.; l’importante per me è essere in grado di scrivere un buon brano. E il più delle volte sono ipercritico nei miei confronti, ho sempre l’impressione che manchi qualcosa o che qualche passaggio sia troppo banale. Scrivere un buon pezzo viene prima di tutto!
Chi sono i chitarristi che ti ispirano di più e che ti piace ascoltare attualmente?
Sto ascoltando molti gruppi più che singoli chitarristi, roba molto “modern”, tipo Nickelback, Linkin Park o Disturbed, tanto per citarne alcuni. Trovo che scrivano canzoni molto dirette ed efficaci. Tra i chitarristi, direi Andy Timmons, che ammiro e stimo moltissimo.
Lo stesso Timmons racconta che ascolta molto poco Eric Johnson, pur apprezzandolo moltissimo, perché ne rimane “invischiato” al momento di suonare e comporre… C’è qualcuno da evitare anche per te?
Lo stesso accade a me proprio con Timmons, per esempio, o con Petrucci fino a un po’ di tempo fa. E sul disco si sente in alcuni momenti: sono quei chitarristi che prima o poi finiscono per influenzarti… Li vedi suonare dal vivo e capisci che la chitarra è veramente un’estensione del loro corpo.
Tra la tua musica e le collaborazioni, ti si può sicuramente definire un musicista impegnato…
Cerco di tenermi impegnato quanto più è possibile, scrivendo brani o semplicemente impartendo lezioni private. L’importante è che si tratti di musica. L’aver vissuto in una famiglia di musicisti mi ha fatto capire che questo è un lavoro serio oltre che una gran passione, fatto di tanta dedizione, di gioie e anche di dolori. Per cui cerco di non buttare nulla perché tutto porta esperienza.
Guglielmo Malusardi