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I 3 King

Tutti e tre i King hanno avuto carriere difficili, con benefici economici relativamente modesti, se paragonati a quelli dei musicisti rock che li hanno presi a modello, alti e bassi dovuti all'alternarsi delle mode e a errori, talvolta, nelle scelte musicali, spesso poco aiutati dalle case discografiche, sfruttati da un mondo del quale non conoscevano a pieno i meccanismi.

B.B. King, quello che ha saputo meglio amministrare, tutto sommato, la sua carriera, ammette di rendersi perfettamente conto del fatto che essere neri costituiva un handicap: indubbiamente i musicisti bianchi, facendo esattamente le stesse cose, ricevevano compensi maggiori e avevano un successo, in genere, molto più ampio; ma il bluesman non mostra alcuna acredine, spiegando filosoficamente la cosa sulla base realistica che i neri, in America, sono comunque una minoranza, per cui non deve sorprendere che la maggioranza preferisca identificarsi, e attribuire in proporzione un adeguato successo, a coloro che quella maggioranza rappresentano, al di là dei meriti puramente artistici che, in molti casi, afferma, non si può mancare di riconoscere, come non si possono negare i propri errori.

Il problema del successo dei musicisti rock, così enorme se paragonato a quello dei bluesmen che li avevano ispirati, può essere oggetto d'indagine sociologica, ma dal punto di vista musicale il riprendere, anche letteralmente, frasi letterarie o musicali di un artista, farle proprie e partire da lì per formare un proprio lessico, fa parte proprio della più pura tradizione blues. Nel mondo rurale da cui provengono la maggior parte dei bluesmen non esistono diritti d'autore, ma solo necessità di espressione, di divertimento, con il musicista che ha il compito d'intrattenere, far ballare, ma anche di fornire spunti di riflessione su problemi comuni, un po' cantastorie, un po' cronista; funzione, quest'ultima, che con il trasferimento nelle grandi città si stempera fino a sparire quasi totalmente, o meglio, a rimanere molto sullo sfondo, implicito ma non in evidenza. Robert Johnson riprende e sviluppa quanto fatto dai suoi predecessori, T-Bone Walker tinge di swing fondamentalmente lo stesso repertorio, le sue frasi sono alla base dello stile di B. B., Albert e Freddy King, per cui non sono sorpresi, ma lusingati, che Clapton, Taylor e Green a loro volta li imitino. Le priorità sono, per un bluesman, mantenere un chiaro legame con la tradizione, ma contemporaneamente sviluppare una voce riconoscibile, un proprio suono, non solo timbricamente, ma come fraseggio, tocco, intenzione ritmica.

Le fonti, per tutti e tre, sono le stesse: il blues rurale e quello elettrico di T-Bone Walker.

Per avere una voce propria uno dei mezzi migliori è fare buon uso dei propri limiti. Nessuno dei tre, infatti, riesce a duplicare pienamente la scioltezza esecutiva e la raffinatezza armonica di T-Bone, che è un riferimento obiettivamente difficile: showman astuto, musicista preparato, in grado di suonare con competenza il pianoforte e la chitarra, esigente negli arrangiamenti, buon cantante e dotato di swing come un jazzista, che per queste doti si propone come un obiettivo irraggiungibile, un po' come accade, nei decenni successivi, per Hendrix, a sua volta un ammiratore di T-Bone.

Altri modelli, pur importanti, come Robert Johnson o Lonnie Johnson, ma anche Chet Atkins, Barney Kessel, Charlie Christian e altri si rivelano altrettanto ardui da imitare, per cui l'unica soluzione è fare dei propri limiti un punto di forza, sublimandoli in un linguaggio più semplice, con meno ambizioni ma capace di tradursi in una voce originale, che tragga la sua ragione d'essere in un legame indissolubile con la personalità di chi lo propone, operazione nella quale, ognuno a proprio modo, tutti e tre riescono in pieno.

Come dice B.B. King, quando si impara a parlare si fanno proprie le frasi e le parole che usano tutti, inserendo nel proprio vocabolario quelle che piacciono di più e creando combinazioni in certa misura uniche; con la musica avviene lo stesso processo. B.B. rimane impressionato dalla tecnica bottleneck del cugino Bukka White, ma per sua stessa ammissione l'uso del ditale sembra poco appropriato per le sue grosse dita, entrando peraltro in conflitto con il desiderio di associare quel suono a fraseggi stile T-Bone; la soluzione è sviluppare un vibrato che evochi l'espressività quasi vocale ottenibile con il bottleneck, con un fraseggio fluido ma essenziale, privo di cedimenti al virtuosismo, per mantenere un elemento discorsivo che complementi il canto, ponendosi piuttosto come una continuazione dello stesso. Lo stile di B.B., piuttosto grezzo nelle prime incisioni, si affina nel tempo e nei primi anni '60 ha un equilibrio già perfetto, con un timbro che sembra una versione più pulita di quello, ben più saturo, poi inaugurato da Clapton nei Bluesbreakers; in seguito diventa sempre più levigato, chiaro, privo di ogni accenno di saturazione, risultando uno dei suoni più eleganti del blues, anche se, in molti casi, forse fin troppo inamidato (concorde, in fondo, con le ambizioni del bluesman, che per tutta la sua carriera intende dare al blues un prestigio pari a quello di altre forme musicali più accettate dalla borghesia, in questo avendo come riferimento cantanti come Frank Sinatra). A influenzare B.B. non sono solo chitarristi blues ma anche Charlie Christian, Django Reinhardt, Louis Armstrong, i sassofonisti delle sue orchestre e tutto finisce per influenzare, in qualche modo, il suo stile, almeno come feeling, se non tradotto esplicitamente in scale specifiche (non di rado azzarda frasi che sfuggono i confini della pentatonica). Come dice King, l'importante è ascoltare e assorbire l'intenzione, l'attitudine e incorporarne qualcosa, può essere una piccola porzione di frase o solo il modo di tenere una nota; esattamente ciò che Clapton, Bloomfield, Rory Gallagher, Duane Allman, Stevie Ray e molti altri hanno fatto ascoltando la sua musica. Per tutti il disco Live At The Regal è la migliore rappresentazione del suono e dello stile di B.B. King, ma non possiamo non indicare anche le incisioni per la ABC del '62, cui una leggera ruvidezza infonde un fascino che manca a quelle successive, con timbri molto belli.

Albert King lascia che l'influenza di T-Bone sia evocata dagli arrangiamenti dei fiati, sviluppando uno stile, alla chitarra, più vicino a quello viscerale del Delta, con un uso magistrale del bending, aiutato dalla forza poderosa delle grosse mani, con un vibrato ampio e molto espressivo, mentre il fraseggio è semplice, affidato a pochi moduli ricorrenti ma capaci di grande impatto emotivo. Albert chiama la sua musica power blues, intendendo mettere l'accento su quanto di viscerale sa trasmettere attraverso la sua chitarra, irruente e sanguigno, incurante dell'occasionale stonatura o delle imprecisioni, trasformando ogni singola nota in un colpo allo stomaco dell'ascoltatore. Uno dei tratti più distintivi è costituito dall'introdurre spesso le frasi, generalmente brevi ma incisive, con un vigoroso bending e scuotere le corde con il caratteristico vibrato.

Il suono è pieno ma chiaro, mai eccessivamente penetrante, con un attacco deciso e un efficace sfruttamento delle capacità di sostegno della sua Flying V. Fra i tre è quello con lo stile più vicino a suggerire la potenza che con la distorsione realizzeranno in pieno i vari Jimmy Page, Clapton, Taylor, Stevie Ray Vaughan, quello che più di tutti riesce a duplicarne il suono, e non sorprende che da Otis Rush a Luther Allison, da Elvin Bishop a Duane Allman, da Gary Moore a Jeff Healey, senza escludere Hendrix, tutti lo citino come un inevitabile punto di partenza, dimostrandogli sempre un affetto incondizionato, esaminando con puntiglio ogni minimo aspetto del suo stile (uno degli studiosi più entusiasti della tecnica di Albert King è Michael Bloomfield).

Freddy King, che negli anni '60 cambia l'ortografia del nome in Freddie, è il più dotato tecnicamente, capace di volate veloci e fraseggi più intricati, con un'evidente maggiore influenza da parte dei musicisti di Chicago unita a un amore per il suono diretto e brillante, con la tentazione al virtuosismo che caratterizza molti musicisti texani. La lezione di T-Bone è ben digerita e un'eccellente capacità di sintesi permette di creare frasi di grande efficacia e facilmente orecchiabili, alla base dei suoi celebri strumentali, facilmente riconoscibili pur essendo invariabilmente costruiti su strutture tradizionali. La tradizione fornisce il materiale che Freddy usa per costruire i suoi brani, attingendo dalla musica che ascolta nei cori in chiesa, dalle improvvisazioni dei jazzisti, qualsiasi cosa di cui possa catturare l'essenza, trasformarla in una frase melodica d'effetto e incorporarla nello schema del blues con un'accurata scelta della scansione ritmica (per sua stessa ammissione Hide Away, il suo brano più famoso, nasce ascoltando un boogie del chitarrista slide Hound Dog Taylor e rielaborandolo con Magic Sam). Eric Clapton, che nei primi anni '60 usava prevalentemente una Gibson ES 335 e una Fender Telecaster, acquista la Gibson Les Paul resa celebre dalle incisioni con i Bluesbreakers dopo aver visto sulla copertina di un disco una foto di Freddy King con una Les Paul; non trovando una Gold Top con i P 90 come quella usata dal bluesman, deve "accontentarsi" di una Sunburst con i PAF. Involontariamente Freddy, che nel frattempo ha sostituito la Les Paul con una ES 345 SV, ispira l'emulo inglese a inaugurare una combinazione, quella di pickup humbucking più amplificatore Marshall, che rivoluziona il suono del rock. John Mayall descrive il suono dei Bluesbreakers come una combinazione degli stili dei tre King, con dosi diverse per ogni chitarrista: un po' più di Freddy e si ha Eric Clapton, una prevalenza di Albert e si ottiene Mick Taylor, un cucchiaio in più di B.B. ed ecco Peter Green. Naturalmente sono molti di più gli elementi che concorrono a formare uno stile: altri, come Earl Hooker, Hubert Sumlin o Otis Rush, influenzati a loro volta dai tre King, non sono meno importanti, senza contare l'influenza di Muddy Waters, Jimmy Rogers, Eddie Taylor, Buddy Guy e molti altri, ma, anche se si tratta di un'evidente schematizzazione, la descrizione di Mayall mette l'accento sull'eredità enorme che i tre King hanno lasciato e che perdura negli stili di chitarristi molto distanti, nel tempo e per genere musicale, come Johnny Winter, Michael Bloomfield, Rory Gallagher, Jeff Healey, Stevie Ray Vaughan, Larry Carlton, Robben Ford, Kenny Wayne Shepherd, facendo capolino perfino nelle cascate di note di John Scofield, Mike Stern e altri.

Mario Milan

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