SALVATORE RUSSO
GITANO PER CASO
Axe n. 149
Il physique du role ce l’ha: occhi neri luminosi, camicia scura attillata su un fisico asciutto, capelli ondulati, mancherebbero solo un paio di eleganti moustaches a lá Django Reinhardt… Ma Salvatore non è un disincantato gypsy jazzer un po’ avanti negli anni, è uno dei più noti e affermati chitarristi rock d’Italia, nonché consumata ascia al servizio del pop nostrano. Il risultato del suo amore per il gypsy jazz è il CD La Touche Manouche (Saint Louis Jazz Collection, 2009), le cui 14 tracce sono illuminate dal playing ispirato del solista e del suo ospite illustre Stochelo Rosenberg...I due virtuosi spadroneggiano per tutto il lavoro con classe, tecnica e feeling. Brani immortali come Anouman, Djangology, Love’s Melody o Minor Swing sono ben inseriti tra gli originali, firmati sia da Stochelo che da Salvatore, del quale segnaliamo in particolare la travolgente Made in Italy, dagli obbligati micidiali, e la struggente ed elegantissima Miro Maal (dedicata all’amico Jurij Ricotti). Menzione d’onore per la doppia versione, con e senza "pompe", del famoso tradizionale Oci Ciornie (Dark Eyes).
I tuoi fan fermi all’ascolto di Contact (2004, con W.Stravato, allegato ad Axe n. 90) incontrano su La Touche Manouche un nuovo, fresco e ispiratissimo Salvatore Russo. Com’è avvenuto il passaggio dal rock e dallo shred al gypsy jazz, dalla chitarra elettrica all’acustica?
È vero: ho ricevuto molte mail di “protesta” per questo apparente cambio stilistico. È una cosa che mi fa sorridere. La verità è che non ho mai smesso di suonare la chitarra elettrica, rimane tutt’ora il 60% del mio sostentamento e in futuro non è detto che non realizzi un nuovo disco elettrico... Certo, in questo momento della mia vita, la vedo più come una risorsa economica che artistica e credo che sia giusto così: in fondo l’ho studiata per vent’anni o più, e, se può far piacere, la suono molto meglio di 5 anni fa! Riguardo al cambio stilistico, amo la chitarra a 360°, vorrei vivere 200 anni per studiarla e suonarla in tutte le sue sfaccettature stilistiche. Adesso suono gypsy jazz, ma come sarebbe bello avere il tempo per dedicarsi al repertorio della chitarra classica o della chitarra acustica! Il mio passaggio al gypsy è stato casuale e naturale, non è stata una decisione netta. Ho trovato la possibilità di esprimermi su un repertorio completamente diverso che mi ha permesso una visione della musica più chiara e lo sviluppo della mia intelligenza musicale. Per fare un esempio, adoro Nuages di Django Reinhardt, ma anche Ain’t Talkin’ ‘Bout Love dei Van Halen, suono Donna Lee di [Charlie] Parker, ma anche Back In Black degli AC/DC. Il gypsy jazz è Maestro di vita, ma non è importante da quale genere viene un brano musicale, purché che sia bello!
Da un punto di vista umano e artistico quali sono stati gli adattamenti a cui ti sei sottoposto per “rinascere” gypsy?
Ho dovuto studiare da capo, da zero. Imparare il repertorio, il linguaggio. Suonare dal vivo senza amplificatore, senza effetti, solo il suono acustico dello strumento ripreso da un microfono… Non hai i suoni lunghi della chitarra elettrica, devi completamente reinventare il fraseggio, tenendo conto che non hai tanti aiuti dal punto di vista esecutivo. C’è voluto un sacco di tempo, anni di insuccessi, ma adoro le sfide.
E dal punto di vista tecnico? Ci sono cose che hai dovuto approfondire o studiare ex-novo?
Suonare su una chitarra tipo Selmer Maccaferri non è facile come suonare su una Strato o una Martin. Tecnicamente devi sviluppare una capacità nelle due mani che ti permetta di suonare bene, con un gran suono senza… farti del male. Così come nel flamenco, la chitarra gypsy ha tecniche tutte sue per quanto riguarda il plettraggio, la posizione della mano destra sulla cassa e di quella sinistra sulla tastiera. Mentre prima utilizzavo molto le scale come punto di riferimento per improvvisare nel rock e nella fusion, nel gypsy le scale sono solo un colore, si improvvisa con gli arpeggi. Sviluppare questa tecnica mi ha permesso di migliorare moltissimo anche sull'elettrica. Quando suoni pensando a un’idea che sta intorno a un arpeggio hai già vinto. Mentre il mio vecchio sistema da chitarrista elettrico, con un impianto base che fa leva sulle scale, mi limitava molto dal punto di vista melodico e creativo in genere.
Hai rapporti d’amicizia con chitarristi famosi, in particolare Stochelo Rosenberg, che è anche ospite del tuo disco; quale è stato il suo apporto?
È stato Stochelo a suggerirmi di realizzare questo CD. Non era nelle mie intenzioni, ma lui mi ha incentivato, mi ha “sbloccato”. È un grande musicista, ha una storia e un talento fuori dal comune, ma è anche una grande persona e io ho l’onore di averlo come amico. La mia idea era che lui avrebbe suonato su due o tre tracce, invece ha voluto suonare tutto, soprattutto le mie composizioni. Per questo ho chiamato il CD La Touche Manouche, in suo onore e del suo omonimo brano [presente sul disco]. Il CD è stato registrato in due riprese, a casa mia a Otranto e ad Almere, vicino Amsterdam, in Olanda.
Chi lo ha prodotto?
Stefano Mastruzzi, direttore del Saint Louis di Roma [Saint Louis College of Music – www.slmc.it ; ndr] ed editore dell’etichetta Saint Louis Jazz Collection. La distribuzione è affidata alla Egea.
Dal punto di vista della composizione, ma anche dell’esecuzione, che tipo di approccio hai oggi?
Non mi capita spesso di scrivere brani originali, però, adesso che ho una maggiore consapevolezza delle relazioni tra melodia e armonia, le idee prendono forma da sole. Mi capita di imbracciare la chitarra e in pochi minuti quello che ho in mente prende forma. E sicuramente è una bella song, semplice e spontanea anche dietro un’apparente complessità armonica o tecnica. Diversamente, se ci ragiono troppo, viene fuori qualcosa di “alienante”, si capisce che il tutto è costruito e non arriva da dentro. Fortunatamente, quando si registra un CD gypsy, si usa inserire giusto un paio di composizioni originali e il resto sono standard rivisitati. Questo permette di avere nel progetto solo le migliori composizioni proprie, così tutto il disco ne trae beneficio. Nel rock, invece, sei fai un disco solista strumentale, sei costretto a suonare tutti brani originali: nel 99% dei casi, dopo la seconda traccia vorresti lanciare il disco dalla finestra!
La gioia fa capolino nelle tracce del CD e nel tuo playing. È un buon momento per te?
Se devo essere sincero, ho ritrovato l’entusiasmo e la voglia di crescere che avevo i primi anni che cominciavo a studiare la chitarra. In Italia non hai molta possibilità di esprimerti come chitarrista rock, per di più solista. Questo è frustrante e demotivante per chi passa ore a studiare, e poi, dal vivo, ha uno spazio per il solo - il momento di gloria – di pochi secondi. Fateci caso: se qui sei il chitarrista di Vasco, ad esempio, sei una star; diversamente, non sei nessuno. Ci sono tantissimi grandi chitarristi in Italia, ma non hanno spazio per esprimersi. E io non ci sto a questo giochetto...
Il tuo pubblico è sicuramente cambiato, probabilmente oggi è meno “settoriale”. Come accogli questa variazione?
Nella musica colta, la classica e il jazz, c’è tutto un pubblico che ama andare ai concerti. È fantastico, ti capita di suonare davanti ad almeno tre o quattro generazioni di persone. La sfida è riuscire a coinvolgere tutti, dai bambini agli anziani, fino alle persone che sono lì per puro caso. E quando arriva l’applauso ti senti veramente felice e appagato. Si suona anche per questo, per dare e ricevere qualcosa dal pubblico. Non si può pretendere di “ammazzarlo” con una valanga di suono e poi pretendere che ti ringrazi per questo!
Tempo fa accennavi ai problemi sonori dello strumento da gypsy jazz. Quali caratteristiche deve avere per suonare bene e tu come hai risolto?
La chitarra tipo Selmer progettata da Mario Maccaferri, il liutaio italiano di Cento trasferito a Parigi, è uno strumento dal suono meraviglioso ma al tempo stesso difficile da ottenere. Per essere più chiari, se prendi una Martin D28, ti accorgi subito quando la suoni che è un miracolo di progetto, catene, body, manico e buca. Invece le chitarre che suono io, per suonare bene, ci devi perdere la testa. E le mani... Non hanno il suono facile: la scala è lunghissima [in realtà può variare tra una “corta” 640 mm., pari a 25”, una classica 648 mm., pari a 25 1/2”, e ben 670 mm., pari a 26” e 5/8. Nda], le corde non possono essere troppo basse sulla tastiera, l’incatenatura è un po’ “arcaica”. Uno strumento complicato, insomma, ma quando riesci a tirarne fuori il suono, ti rendi conto che nessuna acustica folk ha un suono solista altrettanto bello, definito e con le frequenze così giuste. Non a caso nell’ambiente gypsy si dice spesso “the devil is in the right hand” [il diavolo è nella mano destra], come per dire che lo strumento non ti regala nulla, sei tu a dover tirare fuori il suono. Io uso due chitarre costruite dal liutaio olandese Leo Eimer: una, il modello Antique, con la buca piccola, dal suono molto centrato, che utilizzo soprattutto per registrare; e l’altra, con la buca a D, modello Pizzarelli, che suono prevalentemente dal vivo. Sono due chitarre meravigliose, da vero gypsy; con il passare del tempo suonano sempre meglio, fantastico!
Per l’amplificazione come ti regoli?
Dal vivo, se posso, suono solo con un microfono davanti; se, per motivi tecnici, non è possibile, mi aiuto con un amplificatore. Ho installato nel ponte un [pickup] piezoelettrico, non è il massimo ma ti salva in certe situazioni. Per il CD abbiamo utilizzato dei microfoni; ho provato svariati modelli, ma alla fine ho utilizzato solo microfoni a condensatore per tutti i musicisti.
Quanto tempo ha richiesto la registrazione?
È stato registrato in due sessioni. Io e Stochelo abbiamo sempre registrato insieme, ma in alcuni casi è capitato che io risuonassi una parte dopo. In un certo senso, il CD è stato per me anche un’occasione per imparare da Stochelo come si suona il gypsy in studio, e non solo dal vivo. È capitato anche il contrario: per esempio, in Made in Italy sono stato io ad aiutare Stochelo a registrare le parti. Insomma, c’è stata una collaborazione magica , anche con i musicisti della sezione ritmica: Franco Speciale, mio braccio destro da quando ho cominciato a suonare questo genere, mi ha aiutato moltissimo soprattutto nel dare forma alle mie composizioni; al contrabbasso suona un grande giovane talento, Marco Bardoscia. Ci sono anche degli innesti di batteria, di Alessandro Napolitano, e di cajon, di Ovidio Venturoso. Una volta registrato il CD con il mio portatile Mac, sono andato in uno studio attrezzato con grandi ascolti per le correzioni audio, il mix e il mastering, avvalendomi della collaborazione dell’ingegnere [del suono] Antonio Parisi, un mago della fonia.
Che tipo di plettri e corde usi?
Uso dei plettri artigianali costruiti da Michel Wegen [http://www.wegenpicks.com/]. Hanno uno spessore di 2 mm. A differenza di quello che si crede, un plettro molto spesso consente una presa molto morbida con la mano destra, favorendo un suono deciso ma al tempo stesso delicato, cosa impossibile con uno spessore minore. Come corde, uso le Galli GSB10 Ball Ends, studiate per chitarre tipo Selmer.
Stochelo usa uno strumento diverso dal tuo?
La chitarra di Stochelo è una Selmer originale, numero 504. Considera che Django suonava la 503! Uno strumento meraviglioso, dal suono assurdo. Cade a pezzi, è così vecchia - 1935 - che “si tiene con l’Attak”; ma quando la suoni ti rendi subito conto che c’è qualcosa di magico in lei, impossibile da riprodurre. Sicuramente la migliore chitarra al mondo per questo genere!
Quando siete insieme, ma non per suonare, vi scambiate lick, consigli, etc.?
Quando siamo insieme, il che non accade spesso purtroppo, parliamo delle cose della vita, delle nostre famiglie. Mi racconta dei suoi progetti discografici e capita anche che mi chieda consiglio su cosa suonare. È una persona molto intelligente, ha le idee chiare su cosa vuole fare, ma gli interessa molto capire cosa i fan si aspettano da lui. Io, che sono un suo grande fan, spesso gli suono nota per nota qualche suo vecchio brano, che magari ha dimenticato e vorrebbe riproporre dal vivo. Lui invece mi è molto di aiuto dal punto di vista manageriale, cosa in cui non sono molto pratico; mi suggerisce come muovermi nell’ambiente e cosa fare per raggiungere buoni risultati. Non abbiamo segreti, basta uno sguardo per capirsi, questo perché prima del musicista viene la persona. La musica è il gioco, il divertimento.
Ascoltando con attenzione il disco, soprattutto nei soli, si avverte che qualcosa dal punto di vista tecnico è stato traghettato dal rock nel tuo gypsy playing. Sei d’accordo?
È vero. Quando ho registrato Anouman di Django avevo in mente Jeff Beck. È incredibile come ho rivalutato nel tempo chitarristi che in passato consideravo molto, ma di cui non avevo recepito fino in fondo il talento. Tutto sommato la chitarra elettrica è di base uno strumento musicale sordo, senza cassa, con un sacco di metallo ed elettronica. Musicisti come Beck sono riusciti a tirarne fuori l’anima come pochi altri hanno saputo fare. Molti chitarristi elettrici che dedicano molto del loro tempo alle tecniche più disparate, come il tapping a 8 dita, o semplicemente alla velocità o allo sviluppo delle armonie più strane non si rendono conto che, se possono farlo e campare di queste stronzate facendo i “super-eroi”, è solo grazie a qualche chitarrista come Beck, Santana, Hendrix o Clapton, che hanno dedicato una vita a scrivere melodie che hanno sancito la popolarità della chitarra elettrica sul pianeta. Ed è per questo che alla fine chitarristi come Joe Satriani o Joe Bonamassa hanno successo: pensano alla musica più che alla tecnica.
Ma in fondo, feeling e intenzione a parte, il gypsy jazz è un genere musicale virtuoso e tecnico, non credi?
Sicuramente. Anche quando ascolti certe cose di Bach, Mozart o Chopin puoi avvertire una grande tecnica. Ma una cosa è la tecnica esecutiva che comprende anche la velocità ma si basa sul gusto, sul tocco e sulla bellezza espressiva, una cosa è la tecnica “impazzita”, fatta di note a caso, che stanno lì giusto per stupire. Django è stato un grande esempio per la chitarra, basta ascoltare le sue improvvisazioni... È quello che cerco di insegnare ai più giovani; spesso vengono a scuola con un imponente bagaglio di frasi complicate, ma non hanno la minima idea di quello che stanno suonando. Il mio compito è quello di insegnare loro a non cadere in questi errori. Ognuno di noi ha la musica dentro, cerco il sistema per farla uscire fuori. Nel nostro paese abbiamo così tanto bisogno di bravi chitarristi!
Quali sono le altre tue attività musicali?
I concerti sono la base, che siano con il mio trio, con Stochelo o come chitarrista pop in prestito per qualche cantante. Poi c’è il lavoro in studio di registrazione. Lavoro moltissimo come session man e negli anni ho raggiunto un grande livello di preparazione. La mia visione della chitarra a 360° mi agevola moltissimo in questo: posso suonare una ritmica in stile Metallica - che adoro - oppure alla Paco De Lucía, con due diversi tocchi, suoni, fraseggi e strumenti. È una caratteristica importante quando sei chiamato in studio.
Quale atteggiamento avverti da parte dei giovani, magari tuoi allievi di chitarra, nei confronti del gypsy?
Il contesto socio-culturale in cui viviamo gioca un ruolo fondamentale, purtroppo. Se sei circondato da altri ragazzi che suonano rock, non hai alternative. Per questo la scuola, più che le lezioni private, gioca un ruolo fondamentale: all’interno di una struttura didattica si crea un microcosmo in continua evoluzione, dove il confronto viene nobilitato dalla ricerca didattica che ti porta inevitabilmente a confrontarti con diversi stili musicali. Hai così la possibilità di condividere con altri studenti la tua ricerca e di metterla in pratica in diversi generi. Conto molto sulla sede del Saint Louis a Brindisi per la mia Puglia. Qui nella mia terra vorrei agganciare la musica più all’Europa che all’Italia.
Fabrizio Dadò